In questa casa della carità tradizionalmente si celebrano due feste:
- quella del mistero a cui la Casa è dedicata, che cade nella festa liturgica dell’Ascensione
- quella della data di inaugurazione, il 4 ottobre del 1966.
Ogni anno, il 4 ottobre facciamo memoria del dono ricevuto dando un taglio più storico e concreto (per non restare a fissare il cielo… cfr Atti 1,11): memoria delle persone che hanno desiderato la casa della carità, del card. Lercaro e di don Giuseppe Nozzi, e di coloro che quel dono hanno accolto perché qui sono cresciute e che qui hanno vissuto in tutti questi anni.
Quest’anno l’anniversario cade in un contesto di cui ricordo solo alcuni tratti: la nostra Comunità sta proseguendo il suo cammino di ripensamento alla luce dei tempi attuali, sperimentando forme di conduzione della Casa partecipate e comunitarie, dove ogni vocazione possa vivere il proprio tratto specifico con la dignità che le è propria, uniti dal comune battesimo ma diversi per storia e chiamata.
E’ un cammino faticoso e bellissimo: penso al Consiglio di Casa, al ripensarsi delle consacrate nella loro vocazione, ma anche ai criteri che come comunità ci siamo dati per vivere le Tre Mense in maniera equilibrata, perché il servizio non soffochi la preghiera e l’annuncio della Parola, per essere sostenibili, per accogliere e accudire gli ospiti sempre più dignitosamente, per far sì che i volontari trovino un terreno fertile alle esigenze umane e alla ricerca spirituale di ciascuno, nell’oggi; penso all’apertura della casa alle esigenze delle persone che sperimentano il carcere e alla condivisione che sperimentiamo quotidianamente con la Fraternità “Tuscolano 99″… sono solo alcune delle sfide che abbiamo messo nel nostro orizzonte e che stasera mettiamo su questo altare.
Questo anniversario cade anche in un contesto mondiale di guerra e di sofferenza particolarmente pesante, che ci spinge ad alzare lo sguardo e davanti al quale non possiamo non restare indifferenti. Il carisma delle case della Carità ci definisce “profeti dello scarto” e “chiamati a diffondere la Civiltà dell’Amore”. Per concretizzare queste due espressioni e farle diventare preghiera, citiamo le parole del card. Zuppi in occasione della celebrazione dell’80° anniversario dell’eccidio di Montesole (29/09/24).
Ecco perché immaginare la pace. Immaginare non significa chiudere gli occhi e cercare quello che non esiste, ma aprirli sul deserto e iniziare da lì a costruire il giardino. Immaginano la pace i profeti, quelli che non smettono di credere che il lupo dimorerà accanto all’agnello e iniziano, come San Francesco, a parlare al lupo trattandolo da fratello quando ancora è nemico ma credendo che può ritrovare la via dell’amicizia, capendo le cause della sua violenza e aiutandolo a risolverle, facendosene carico, non lasciandolo solo. Immaginiamo la pace scendendo negli inferni creati dalla violenza e dalla guerra, dove muoiono tanti santi innocenti, dove si oltraggiano i morti, si torturano i vivi e si colpisce il fratello che l’odio e l’istinto rendono un nemico. Immaginiamo la pace con la preghiera che sposta le montagne ma anche nel delicato dialogo che con tanta pazienza la prepara e la raggiunge.
Si immagina perché c’è, e perché senza vederla nella speranza e senza cercarla non ci sarà la pace. Farlo assieme, diversi come siamo, è già una risposta e ci aiuta a pensare itinerari possibili per raggiungerla, itinerari che diventano impegni e scelte. Solo la pace ha valore, perché senza, niente ha valore. Non c’è vita senza pace. Immaginiamo la pace perché non ci arrendiamo al falso realismo della guerra, con la sua logica inarrestabile. Immaginare la pace significa parlare, ascoltare, rispondere, dialogare, senza confini, perché come la guerra è una pandemia così la pace riguarda tutti e richiede un impegno comune. Ci sentiamo in intima unione con l’intera famiglia umana e desideriamo diventare operai che la pace la costruiscono nel quotidiano.
(Katia Ciraci)